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Analisi sulla pianificazione dell’allenamento: l’importanza del recupero attivo nel calciatore

Analisi sulla pianificazione dell'allenamento: l'importanza del recupero attivo nel calciatore

Analisi sulla pianificazione dell'allenamento: l'importanza del recupero attivo nel calciatore

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Dalla scuola allo stadio, dall’ufficio alla metro, passando per il bar dove tra un caffè e l’altro ci si ferma a leggere le ultime notizie sul giornale, fino alle infallibili notifiche live direttamente sullo smartphone, il calcio è senza dubbio uno degli argomenti con maggiore impatto sociale ed economico sulla nostra popolazione; basti pensare ai numeri che circolano in Italia, dove tra agonismo e non agonismo si contano circa cinque milioni di persone  che praticano per professione o per semplice passione questo emozionante sport. 

Tali cifre, che coinvolgono in maniera simile la popolazione mondiale, hanno fatto sì che la ricerca scientifica finalizzata all’ottimizzazione della pratica calcistica sia diventata sempre più importante. Grazie agli studi infatti, la performance fisica dei calciatori si è notevolmente evoluta nel corso degli anni, basti pensare come la distanza totale percorsa da un giocatore durante una partita è aumentata da 7000-8000m negli anni settanta agli attuali 10000-11000 m (+40%) (Bradley et al., 2014).

Questo è stato possibile attraverso una analisi dettagliata di quelle che sono le componenti di questo gioco e  uno studio che nel tempo ha permesso il miglioramento delle stesse. Si tratta d’altronde di uno sport a natura intermittente, dove i meccanismi e le situazioni sono in notevole successione tra loro; delle distanze di cui si è precedentemente parlato infatti, circa 2200m sono percorsi ad alta intensità (velocità di corsa > 15 km/h), 850-950m sono percorsi ad altissima intensità ( v.d.c. > 19.8 km/h) e 250-350 m sono coperti sprintando (v.d.c. > 25km/h) (Rampini et al., 2007). La tipologia di esercizio che i calciatori effettuano conduce gli stessi alla variazione dell’attività in media ogni 4-6 sec.  arrivando ad effettuare, nel corso di una partita, circa 1000/1500 variazioni (Strudwick et al., 2002; Reilly, 2003) di cui circa 200 ad alta intensità. Da quanto appena affermato si evince come il contributo anaerobico sia significativo nel corso delle fasi più intense del match (Krustrup et al., 2006b); in particolari condizioni ambientali poi (caldo e umidità) tutti i meccanismi legati alla termoregolazione sono significativamente attivati.

Questi dettagli, insieme al notevole impegno muscolare che richiede il gioco del calcio, influenzano negativamente la capacità di sviluppare la massima forza e/o potenza, fondamentale per una prestazione ottimale e forte indice sullo stato di fatica dei giocatori nel corso delle partite (Mohr et al.2005). Tutte le serie di modifiche alle quali è sottoposto un atleta sono dovute, come accennato in precedenza, ai continui sprint, cambi di direzione, contrasti, salti, tiri, cambi di velocità e possono condurre lo stesso ad una perdita del 2% sul peso corporeo iniziale in aggiunta ad una forte deplezione dei substrati glicolitici, il quale è un  importante fattore di rischio da prendere in considerazione. Il notevole impegno muscolare invece, dovuto alle continue variazioni in gara, conduce ad uno stress sulle fibre che si verifica attraverso l’esaurimento dei  suoi substrati, inoltre sembrerebbe che l’attività ad alta intensità ripetuta da bruschi cambi di ritmo e azioni intense, porti all’insorgenza di DOMS (dolore muscolare tardivo)  e quindi ad un rischio maggiore di infortunio (Rahnama et al, 2002).

Tutti questi fattori elencati nell’introdurre le sollecitazioni alle quali un giocatore va incontro, provocano un aumento delle infiammazioni corporee, come l’aumento del CK , fondamentale per la produzione di energia, che va dal 70% fino al 250% e ha un ritorno alla norma in 48/120 ore, quindi almeno due giorni dopo la gara. Un altro dato relativo ai processi infiammatori post gara  in grado di fornire delle indicazioni sullo stato muscolare  è quello relativo all’aumento di alcune proteine come CRP, LDH che raggiungono un valore di picco dopo 48h per poi svanire entro le 72h, tempo necessario per un recupero completo. Infine, non è da sottovalutare, l’effetto negativo che tali condizioni comportano sulla tecnica di gioco, come quella di effettuare brevi passaggi su distanze ravvicinate (Rampinini et al. 2008).

Volendo tuttavia analizzare nel dettaglio lo stato psicofisico transitorio che un giocatore subisce nelle ore successive alla gara, per poi cercare di definire i metodi migliori per favorirne il recupero, bisogna introdurre quella che Edwards e collaboratori, nel 1977, hanno descritto come “l’inabilità di produrre la massima forza da parte di un individuo” o come più recentemente Barry e Enoka, nel 2007, hanno definito come una

“riduzione acuta di performance che comprende sia un aumento della percezione dello sforzo nel produrre una determinata forza sia eventualmente un’incapacità di produrre questa stessa forza”

Tali citazioni hanno come massimo comune denominatore una sola parola: la fatica. Generalmente distinguiamo la fatica derivante da un esercizio fisico secondo la sua origine: centrale e periferica (Gandevia, 2001).

Viene definita come centrale la fatica che origina nel cervello o nel midollo spinale, periferica invece quando i fenomeni che la determinano si verificano nella zona che risiede a valle della giunzione neuromuscolare (Gandevia, 2001).  La fatica centrale è solitamente legata ad una ridotta efficienza del comando motorio centrale e può essere quantificata tramite l’utilizzo della tecnica della twitch interpolation technique, in grado di consentire la determinazione della massima attivazione volontaria di un muscolo da parte di un individuo e quindi permette di avere un indicatore indiretto di efficienza del comando motorio centrale. La fatica periferica coinvolge una riduzione della trasmissione del potenziale d’azione e una ridotta efficienza del meccanismo di eccitazione-contrazione. Analizzando nello specifico lo sport del calcio Mohr e collaboratori, nel 2005, affermano come in questo gioco sia possibile distinguere almeno tre tipologie di fatiche: quella di tipo transitorio che si genera a seguito delle fasi più impegnative del match, quella nella fase finale della partita e quella di tipo permanente ovvero quella che persiste nelle ore o nei giorni successivi al termine dell’incontro. Tra le tipologie appena citate, quella in grado di avere maggiori ripercussioni sullo stato dell’atleta è sicuramente la fatica di tipo permanente che, come affrontato in precedenza, tende a diminuire la performance attraverso un calo delle singole componenti psicofisiche.

A conferma di questa tesi abbiamo scelto di comparare due studi presenti in letteratura effettuati su calciatori portoghesi e greci (Ascensao et al., 2008; Ispiridis et al., 2008). Da tali studi è possibile dimostrare che, a seguito di un incontro, la capacità di effettuare sprint può risultare ridotta anche del 10% per un periodo di tempo molto lungo (anche 72 ore). Altro parametro importante per definire lo stato di fatica è il calo di forza. Gli stessi ricercatori infatti hanno utilizzato il test di forza massima (effettuato tramite l’esercizio dello squat o tramite macchinario isocinetico)per misurare il calo della stessa a seguito di una partita. Ascensao et al. (2008) hanno verificato che un match porta ad una riduzione della forza massima dal 5% al 12% per 72 ore, mentre nello studio di Ispirlidis et al. (2008) il calo di forza è stato del 9-14% anche in questo caso per 72 ore.

L’articolo completo è disponibile in formato PDF.
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Abstract of the article in English

In modern soccer, with games that follow one another week by week or often by 3 in 3 days, players can be subjected to considerable physical and psychological stress. In fact, an ever increasing number of games, we have seen how it can influence muscle recovery and consequently the ability to perform.

All this is due to the fact that the players are subjected to sprints, changes of direction, contrasts, jumps, pitches, speed changes, and breaking that produce a series of organic changes such as dehydration which, as shown by Mohr et al. (2010), leads to a loss of 2% on the initial body weight. At the end of the match it was also noted how a major risk factor, to be taken into consideration, could be the strong depletion of glycolytic substrates, (Di Salvo et al, 2009; Mohr et al, 2010).

This phenomenon is due to the distances traveled at high speed and the high power actions, which together with the accelerations and decelerations create a stress to the muscle fibers, bringing its substrates to exhaustion. Moreover, it would seem that the high intensity activity repeated by abrupt changes of rhythm and intense actions, leads to the onset of DOMS and this may increase the risk of injury.

The post-match effect, in addition to having a negative effect on physical and mental performance, also has a negative effect on technical skills such as that of making short passes over short distances (Rampinini, 2008).

Knowing that all these factors can influence post-match training (the day after) it is easy to think how the game plays a fundamental role, not only on a technical tactical level but also on a physical level, in the structuring of the training morphocycle.

Starting from this and from the analysis on the planning of the morphocycle, from the state of physical and psychological fatigue of the players, the work week is scheduled, for a correct muscle recovery.


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