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L’inganno del fruttosio

Rubrica: Dal Web
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All’interno delle diete ipocaloriche molto di frequente compare il fruttosio come dolcificante alternativo, con l’ipotesi di sfruttare il minore impatto insulinico e glicemico oltre che un minore potere calorico in rapporto alla capacità edulcorante, tuttavia i processi metabolici e fisiologici portano a riconsiderare significativamente il suo impiego.

Quando si parla di diete finalizzate al dimagrimento, l’associazione con cibi come la frutta è naturale. Allo stesso modo nel corso degli anni si è fatta strada l’idea che, sostituire il comune zucchero da tavola (il saccarosio) con il fruttosio,  potesse permettere numerosi vantaggi sfruttandone qualità come il basso indice glicemico. Controllare l’indice glicemico significa infatti indurre un rilascio di insulina molto meno marcato, evento tecnicamente positivo essendo l’insulina un ormone deputato (tra l’altro) al controllo degli zuccheri circolanti e favorendone il loro stoccaggio anche sottoforma di adipe, oltre ad avere un effetto inibente riguardo la lipolisi, ossia il processo inverso tramite cui i grassi possono essere usati dal corpo a scopo energetico (inducendo il dimagrimento). Volendo semplificare è lecito dire che un minore indice glicemico determina minore insulina, minore propensione a ingrassare e maggiore probabilità di utilizzare grassi di accumulo. Non a caso molte diete si basano proprio sul controllo della risposta insulinica degli alimenti. A questo vantaggio del fruttosio si associano ulteriori punti a favore, ad esempio nel caso di soggetti diabetici. Tuttavia malgrado queste apparenti e incontrovertibili virtù, il fruttosio presenta diversi punti critici che dovrebbero far riconsiderare il suo utilizzo.

Classificazione dei carboidrati

Anzitutto occorre segnalare che il fruttosio appartiene al gruppo degli zuccheri semplici, al contrario ad esempio dell’amido (riccamente presente nelle patate, nei cereali ecc.) che è uno carboidrato complesso. Appartengono agli zuccheri semplici sia i monosaccaridi che i disaccaridi, mentre rappresentano carboidrati complessi i polisaccaridi. I monosaccaridi sono zuccheri composti da una singola molecola (monomero) costituita da atomi di carbonio, idrogeno e ossigeno. I monomeri possono combinarsi ricorsivamente tra loro, quindi si possono avere zuccheri composti da 2 molecole, ossia i disaccaridi, o da catene più lunghe come nel caso dei polisaccaridi.

Una prima classificazione degli zuccheri consente pertanto di distinguerli in monosaccaridi, disaccaridi (entrambi detti zuccheri semplici) e polisaccaridi (ossia carboidrati complessi). Appartengono ai monosaccaridi il fruttosio, il galattosio e il glucosio; appartengono ai disaccaridi il saccarosio (fruttosio + glucosio), il lattosio (galattosio + glucosio) e il maltosio (glucosio + glucosio); appartengono ai polisaccaridi gli amidi, la cellulosa e il glicogeno.

Parlando di carboidrati in linea generale è comune riferirsi anche agli oligosaccaridi. Gli oligosaccaridi non sono altro che zuccheri composti da un numero esiguo  di monosaccaridi (massimo 10, alcuni autori indicano 20). Pertanto anche i disaccaridi sopra citati fanno parte degli oligosaccaridi, famiglia cui appartengono anche i trisaccaridi come ad esempio il raffinosio (fruttosio + glucosio + galattosio).

Infine, con riferimento ai polisaccaridi, anche in questo caso è possibile fare una distinzione tra quelli le cui lunghe catene di monosaccaridi che li compongono sono una ripetizione del medesimo monosaccaride: gli omopolisaccaridi (es.: il glicogeno formato da lunghe catene di glucosio); e i polisaccaridi rappresentati da lunghe catene di monosaccaridi differenti: gli eteropolisaccaridi (es.: glicosaminoglicani).

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